Il negligente, libretto, Venezia, Fenzo, 1749

 SCENA III
 
 TULIA ed AURORA
 
 TULIA
 Aurora, ah non vorrei
60che per troppo voler s’avesse a perdere
 l’acquistato finor dominio nostro.
 Donne alfin siamo e a noi
 forza non diè natura
 che nei vezzi, ne’ sguardi e in le parole;
65spade e lancie trattar, loriche e scudi
 non è cosa da noi. Se l’uom si scuote,
 val più un braccio di lui che dieci destre
 di femmine vezzose e tenerelle
 ch’hanno il loro potere in esser belle.
 AURORA
70Tulia, voi, per dir vero,
 saggiamente parlate e a voi la sorte
 diè sesso feminile
 ma il senno ed il saper più che virile,
 anzi madre natura
75alla breve statura
 del vostro corpo graziosetto e bello
 ha supplito con darvi assai cervello,
 indi la madre vostra
 vi diè il nome di Tulia con ragione,
80poiché sembrate un Tulio Cicerone.
 TULIA
 Raduniamo il consiglio.
 Facciam che stabilite
 siano leggi migliori, onde si renda
 impossibile all’uom scuotere il giogo.
85Che se l’uomo ritorna ad esser fiero
 farà strage crudel del nostro impero.
 
    Fiero leon, che audace
 scorse per l’ampia arena,
 soffre la sua catena
90e minacciar non sa.
 
    Ma se quei lacci spezza,
 ritorna alla fierezza,
 stragi facendo ei va.
 
 SCENA IV
 
 AURORA, poi GRAZIOSINO
 
 AURORA
 Che piacer, che diletto
95puol recar alla donna il fier rigore.
 Il trattar con amore
 gl’uomini a noi soggetti
 soffrir li fa la servitude in pace
 e la femina gode e si compiace.
100Io fra quanti son presi ai lacci nostri
 amo il mio Graziosino,
 amoroso, fedele e semplicino,
 e lo tratto, perché mi adori e apprezzi,
 con soavi parole e dolci vezzi.
105Elà. (Esce un servo) Venga qui tosto
 Graziosino, lo schiavo a me soggetto. (Parte il servo)
 Infatti il poveretto
 merita ch’io gli faccia buona cera,
 se mi serve e mi fa da cameriera.
110Eccolo ch’egli viene. Ehi Graziosino.
 GRAZIOSINO
 Signora. (Viene facendo le calze)
 AURORA
                    Cosa fate?
 GRAZIOSINO
 Lavoro in fretta in fretta
 e in tre mesi ho fatt’io mezza calzetta.
 AURORA
 Lasciate il lavorar. Venite qui.
 GRAZIOSINO
115Bene signora sì.
 AURORA
 Obbedirete sempre i cenni miei?
 GRAZIOSINO
 Io faccio quello che comanda lei.
 AURORA
 Caro il mio Graziosino,
 siete tanto bellino.
 GRAZIOSINO
120Mi fate vergognar.
 AURORA
                                     Vi voglio bene.
 E vederete del mio amore il frutto.
 GRAZIOSINO
 Queste parole mi consolan tutto.
 AURORA
 Baciatemi la mano.
 GRAZIOSINO
                                      Signora sì.
 AURORA
 Perché voi mi piacete,
125vi fo queste finezze.
 GRAZIOSINO
 Oh benedette sian le mie bellezze!
 AURORA
 Ma vuo’ che siate attento
 a servirmi qualora vi comando.
 La mattina per tempo
130mi recherete il cioccolato al letto;
 mi scalderete i panni;
 mi dovrete allestir la tavoletta;
 starete in anticamera aspettando
 per entrare il comando
135e, se verranno visite a trovarmi,
 voi dovrete avvisarmi
 e, come fanno i buoni servitori,
 voi dovrete aspettar e star di fuori.
 GRAZIOSINO
 Di fuori?
 AURORA
                    Vi s’intende.
 GRAZIOSINO
140E dentro?
 AURORA
                      Signor no,
 aspettar voi dovrete.
 GRAZIOSINO
                                        Aspetterò.
 AURORA
 Se farete così, vi vorrò bene.
 GRAZIOSINO
 Sì cara, farò tutto.
 Farò la cameriera;
145farò la cuciniera;
 farò tutte le cose più triviali;
 laverò le scodelle e gli orinali.
 AURORA
 In cose tanto abiette
 impiegarvi non vuo’. Voi siete alfine
150il mio caro, il mio bello,
 il mio amor tenerello,
 il mio fedele amato Graziosino,
 tanto caro al mio cor, tanto bellino.
 
    Quegl’occhietti sì furbetti
155m’hanno fatta innamorar;
 quel bocchino piccinino
 mi fa sempre sospirar;
 
    caro il mio bene,
 dolce mia speme,
160sempre sempre
 ti voglio amar.
 
    (Ei gode tutto.
 E questo è il frutto
 della lusinga.
165Ami o lo finga
 donna che vuole
 l’uomo incantar).
 
 SCENA V
 
 GRAZIOSINO solo
 
 GRAZIOSINO
 Oh che gusto, oh che gusto! Ah che mi sento
 andar per il contento il cor in brodo.
170Graziosin fortunato! Oh quanto io godo!
 Non si può dar nel mondo
 piacer che sia maggiore
 d’un corrisposto amore. Aman le belve,
 amano i sordi pesci, aman gli augelli,
175le pecore e gli agnelli;
 amano i cani e i gatti
 e quei che amar non san son tutti matti.
 
    Quando gli augelli cantano,
 amor li fa cantar.
180E quando i pesci guizzano,
 amor li fa guizzar.
 
    La pecora, la tortora,
 la passera, la lodola
 amor fa giubbilar.
185Oh che piacer amabile!
 Oh che gustoso amar!
 
    Farò lo cuoco, farò lo sguattero;
 laverò i piatti ed ettecetera,
 perché l’amore mi faccia il core
190movere, ridere e giubbilar.
 
 SCENA VI
 
 Camera.
 
 GIACINTO con lo specchio in mano, guardandosi con caricatura
 
 GIACINTO
 
    Madre natura,
 tu m’hai tradito
 ma t’ho schernito
 col farmi bello
195con il pennello,
 come le donne
 sogliono far.
 
 Questa parrucca invero,
 questo cappel, che colla polve è intriso,
200fa risaltar mirabilmente il viso.
 Al raggirar di queste
 mie vezzose pupille
 spargo fiamme e faville; e questa bocca,
 che sembra agli occhi miei graziosa e bella,
205fa tutte innamorar quando favella.
 Queste donne son tutte
 invaghite di me; schiavo son io
 di queste belle, è vero,
 ma sovra il loro cor tutt’ho l’impero.
210Ecco la vaga Cintia. Presto, presto,
 il nastro, la parrucca, i guanti, tutto,
 tutto assettar conviene e gli occhi e il labro,
 colle dolci parole e i dolci sguardi,
 si prepari a vibrar saette e dardi.
 CINTIA
215(Ecco il bell’amorino). (Ironicamente)
 GIACINTO
 Mia sovrana, mio nume, a voi m’inchino.
 CINTIA
 E ben, che fate qui?
 GIACINTO
                                       Qual farfalletta
 d’intorno al vostro lume
 vengo, mia bella, a incenerir le piume.
 CINTIA
220Parmi con più ragione
 vi potreste chiamare un farfallone.
 GIACINTO
 Quella vezzosa bocca
 non pronuncia che grazie e bizzarrie.
 CINTIA
 La vostra non sa dir che scioccherie.
 GIACINTO
225Deh lasciate ch’io possa
 coll’odoroso fiato
 de’ miei caldi sospiri
 quelle belle incensar guancie adorate.
 CINTIA
 Andate via di qua; non mi seccate.
 GIACINTO
230Ah, se sdegnate, o bella,
 i fumi del mio cor, porterò altrove
 il mio guardo, il mio piede,
 il mio affetto sincero e la mia fede.
 CINTIA
 Olà, così si parla?
235Voi staccarvi da me! Voi d’altra donna
 servo, schiavo ed amante?
 Temerario, arrogante!
 Voi dovete soffrir le mie catene.
 GIACINTO
 Qual mercede averò?
 CINTIA
                                          Tormenti e pene.
 GIACINTO
240Giove, Pluton, Nettuno,
 dei tremendi e possenti,
 voi che udite gli accenti
 d’una donna spietata,
 spezzate voi questa catena ingrata.
245Sì sì, Nettun m’inspira,
 Giove mi dà valore;
 Pluto mi dà furore,
 perfida tirannia,
 umilmente m’inchino e vado via.
 CINTIA
250Fermatevi; ed avrete
 tanto cor di lasciarmi?
 Voi diceste di amarmi,
 di servirmi fedel con tutto il core
 ed ora mi lasciate? Ah traditore!
 GIACINTO
255Ma se voi mi sprezzate,
 se voi mi dileggiate,
 come s’io fossi un uom zotico e vile,
 e studio invan di comparir gentile.
 CINTIA
 Senza studiar, voi siete
260abbastanza gentil, grazioso e bello.
 Quell’occhio bricconcello,
 quel vezzoso bocchin, quel bel visetto
 m’hanno fatta una piaga in mezzo al petto.
 GIACINTO
 Dunque, cara, mi amate?
 CINTIA
                                                 Sì, v’adoro.
 GIACINTO
265Idol mio, mio tesoro,
 lingua non ho bastante
 per render grazie al vostro dolce amore.
 Concedete il favore
 che rispettosamente
270e umilissimamente
 io vi possa baciar la bella mano.
 CINTIA
 Oh signor no, voi lo sperate invano.
 GIACINTO
 Ma perché mai? Perché?
 CINTIA
 Queste grazie da me
275non si han sì facilmente.
 GIACINTO
 Io morirò.
 CINTIA
                      Non me n’importa niente.
 GIACINTO
 Dunque, se non v’importa,
 d’altra bella sarò.
 CINTIA
                                  Voi siete mio.
 GIACINTO
 Che ne volete far?
 CINTIA
                                    Quel che vogl’io.
 GIACINTO
280Ah quel dolce rigor più m’incatena!
 Soffrirò la mia pena,
 morirò, schiatterò, se lo bramate.
 Basta, bell’idol mio, che voi mi amate.
 
    Ho per lei in mezzo al core
285la fucina di Vulcano;
 stenda pur la bianca mano,
 senta, senta che rumore.
 
    I martelli ben rotati
 sopra i fulmini infocati
290fanno il tipp, tupp, ta.
 
 SCENA VII
 
 CINTIA, e poi TULIA
 
 CINTIA
 Oh quanto mi fan ridere
 con questo sospirar, con questo piangere.
 Gli uomini non s’avveggono
 che quanto più le pregano
295le donne insuperbite più diventano
 e gli amanti per gioco allor tormentano.
 TULIA
 Cintia, che mai faceste
 al povero Giacinto? Egli sospira.
 Egli smania e delira;
300ah, se così farete,
 l’impero di quel cor voi perderete.
 CINTIA
 Anzi più facilmente
 lo perderei colla pietade e i vezzi.
 Gli uomin sono avvezzi
305per la soverchia nostra
 facilità del sesso
 a saziarsi di tutto e cambiar spesso.
 
    Se gli uomini sospirano,
 che cosa importa a me?
310Che pianghino, che crepino
 ma vuo’ che stiano lì.
 Anch’essi se potessero
 con noi farian così.
 
    Laddove delle femmine
315il regno ancor non v’è,
 la tirannia dei perfidi
 purtroppo s’infierì;
 ed or di quelle misere
 vendetta si fa qui.
 
 SCENA VIII
 
 TULIA, poi RINALDINO
 
 TULIA
320Ma io, per dir il vero,
 sono di cor più tenero di lei;
 son con gli amanti miei
 quanto basta severa e orgogliosa;
 ma son, quando fia d’uopo, anco pietosa.
325Talor fingo il rigore,
 freno di lor l’affetto e la baldanza,
 fra il timore li tengo e la speranza.
 RINALDINO
 Tulia, bell’idol mio,
 de’ vostri servi il più fedel son io.
330Deh oziosa non lasciate
 la mia fede, il mio zelo,
 che sol quando per voi, bella, m’adopro,
 felicità nel mio destino io scopro.
 TULIA
 Dite il ver, Rinaldino,
335siete pentito ancor d’avervi reso
 suddito e servo mio? Vi pesa e incresce
 della smarrita libertà primiera?
 Sembravi la catena aspra e severa?
 RINALDINO
 Oh dolcissimi nodi,
340sospirati, voluti e cari sempre
 al mio tenero cor! Sudino pure
 sotto l’elmo i guerrieri; Astrea tormenti
 i seguaci del foro; e di Galeno
 sui fogli malintesi
345studi e s’affanni il fisico impostore.
 Io seguace d’amore,
 fuor della turba insana
 di chi mena sua vita in duri stenti,
 godo, vostra mercé, pace e contenti.
 TULIA
350Noi con pietà trattiamo
 i vassalli ed i servi e non crudeli
 siamo coll’uom, qual colla donna è l’uomo.
 Noi dai consigli escluse,
 prive d’autorità, come se nate
355non compagne dell’uom ma serve e schiave,
 solo ad opre servili
 condannate dal vostro ingrato sesso,
 far per noi si dovria con voi lo stesso.
 Ma nostra autorità, nostro rigore
360temprerà dolce amore
 ed il vostro servir, che non fia grave,
 sarà grato per noi, per voi soave.
 
    Cari lacci, amate pene
 d’un fedele amante core
365che ha saputo al dio d’amore
 consacrar la libertà.
 
    S’è vicino al caro bene,
 non risente il suo tormento
 ma ripieno di contento
370il destin lodando va.
 
 SCENA IX
 
 RINALDINO solo
 
 RINALDINO
 Dov’è, dov’è chi dice
 che dura ed aspra sia
 d’amor la prigionia? Finché un amante
 vive dubbioso e incerto
375fra il dovere e l’amor, fra il dolce e il giusto,
 pace intera non ha ma poiché tutto
 s’abbandona al piacer gode e non sente
 i rimorsi del cor... Ma oh dio! Purtroppo
 li risento al mio sen, malgrado al cieco
380abbandono di me fatto al diletto